È da circa un decennio che cerco di spiegare a me stesso perché, a differenza delle ‘operazioni nostalgia’ di MINI e FIAT 500, quella del New Beetle, o nuovo Maggiolino come si chiama da noi oggi, non abbia funzionato come sperato.
Partiamo da un presupposto. È da un po’ di tempo che realizzare modelli che richiamano forme e concetti del passato paga, in termini industriali, probabilmente perché in tempi di transizione la nostalgia rassicura. La Mini originale era un’utilitaria sportiva e ‘fighetta’, negli anni ’60 e ’70 orde di giovani e meno giovani scorrazzavano a bordo di una scatoletta con posizione di guida da autoarticolato, sospensioni di gomma e un rollio da go-kart. Costava più della FIAT 500 di allora, per questo l’acquirente medio era quello che – con categorie oramai relegate alla memoria sociale – si potrebbe definire un borghese. Il Cinquino invece era l’auto del popolo: costava poco, trasportava quattro persone (spesso molte di più) ed era la chiave d’accesso per antonomasia alla motorizzazione di massa.
All’inizio degli anni duemila, nel 2001 per essere precisi, il Gruppo BMW lanciò la nuova incarnazione della creatura di Sir Alec Issigonis: fu una bomba. Il successo di mercato fu palese, quasi insperato, e la MINI monopolizzò l’attenzione di pubblico e critica, per mutuare un’espressione cinematografica. Perché? Semplice, perché era fatta bene, bella da guardare e fantastica da guidare. E perché la clientela di riferimento era identica a quella di un tempo, con progressivi ampliamenti della fetta di potenziali acquirenti grazie alle versioni sportive Cooper S e JCW, alla pseudo-station Clubman e all’attuale SUV compatto Countryman. Come case history la gamma MINI sarebbe da studiare in ogni università di economia o marketing che si rispetti, il segmento delle citycar premium infatti nasce da qui. FIAT, sulla scorta dell’esperienza anglo-tedesca, nel 2007 ha in fondo semplicemente reinterpretato il medesimo format con la 500. Look vintage e pubblico di riferimento non dissimile da quello dell’originale, con però possibilità di personalizzazione e dotazione che strizzano l’occhio a fasce sociali dal portafogli un po’ più corposo. Perché la MINI ha vinto? Perché offre una piccola sportiva e sfiziosa ai borghesi di oggi. Perché la 500 ha vinto? Perché offre una citycar dalla personalità e dal look inimitabili a un costo appena superiore a quello di una Panda, modello da cui deriva di fatto integralmente. La domanda che il Lingotto ha fatto al mercato è questa: siete disposti a spendere un 20% in più per avere una citycar che ai consueti praticità e costi di gestione contenuti aggiunge colore, voglia di vivere e stile? I clienti di tutto il mondo hanno risposto di sì, a milioni.
Il filone della ‘nostalgia canaglia’ pare anche oggi ben lungi dall’esaurirsi, basti sottolineare il plauso suscitato nel 2009 dal concept Honda EV-N che riprendeva la Autobianchi A112 e quello recente della ‘nuova’ FIAT 127 disegnata da David Obendorfer. Per non parlare della Renault Twin’Run Concept che prefigura la prossima Twingo e pesca a piene mani dalla prima Renault 5, utilitaria iconica e affascinante.
A questo punto la domanda è: perché il Maggiolino no? O meglio, perché il Maggiolino meno degli altri? La deduzione è semplice: perché non è più il Maggiolino. Non è qui il caso di ripercorrere la storia di un modello pressoché invariato dal 1938 al 2003, con oltre 21 milioni di esemplari prodotti e un percorso di vita che va da Adolf Hitler, ai film di Herbie il ‘Maggiolino tutto matto’, fino all’America Latina. Piuttosto c’è da analizzare la vera natura della vettura.
Nasce come Volkswagen Typ 1, auto del popolo in senso letterale, e nel corso del tempo cambiano i popoli cui è destinata ma non la vocazione di vettura semplice, spartana, solida e affidabile come un mulo da soma. Impuntamenti esclusi, s’intende. Il Maggiolino segna la rinascita industriale e civile della Germania distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale, si diffonde nel resto d’Europa e del mondo come una moda, ma le basi per il successo ci sono tutte: il prezzo è contenuto, le soluzioni tecniche di facile manutenzione e il look è inconfondibile. Nel 1958 viene chiamato Sergio Pininfarina per un restyling, ma il designer italiano trova che la ricetta del Käfer sia ottima così com’è e l’unica modifica che propone è l’ampliamento del lunotto posteriore. La crisi di vendite nel 1974 porta la Volkswagen a ingaggiare un altro italiano, Giugiaro, per la realizzazione dell’erede del Maggiolino. Nasce la Golf, che proprio di recente ha superato i 30 milioni di esemplari: quando i figli fanno meglio dei genitori. Ma Herbie non ci pensa nemmeno ad andare in pensione e la sua produzione si sposta in Messico e Brasile, dove continua a trovare estimatori in grandi quantità fino al 2003, anno della definitiva uscita di scena.
Risale a 15 anni fa il debutto dell’erede dello storico Typ 1, il New Beetle. Le forme erano un chiaro omaggio al progenitore, ma che dire della sostanza? Era spartano, economico e riparabile con un calcione ben assestato? No: era una rivisitazione costosa e – diciamolo – un po’ snob, ma sotto la pelle c’era il telaio della Golf IV. Il cliente tipo non era quindi più un romantico squattrinato alla ricerca di un infaticabile compagno di viaggio dai grandi occhi e dalle poche pretese, ma un benestante la cui storia ed il cui profilo avevano ben poco a che fare con il mitico Maggiolino. Il New Beetle è rivolto al cliente Golf che cerca qualcosa in più in termini di design, ma è disposto a rinunciare alle 5 porte, al bagagliaio, ai 5 posti, alla versatilità, alla trazione integrale… alla Golf insomma. Vedete bene come il mercato di riferimento si restringa senza pietà. Cosa avrebbe dovuto fare Volkswagen, a mio avviso, per creare un degno erede? Ripetere la ricetta di base: tecnica spartana, motori semplici e affidabili, prezzo basso. Come? Invece di andare a prendere dal Brasile la Fox, sfortunata intercapedine tra la Lupo e la up!, sarebbe magari bastato adattare il solido telaio della Gol a una nuova carrozzeria, montare un paio di motori già presenti in casa – mutuati dalla Polo, ad esempio – e vendere il tutto a prezzi intorno ai € 13.000,00. Fattibile? Non so, io ci avrei provato. Sarebbe stato un bell’omaggio allo spirito del Maggiolino originale e agli oltre 21 milioni di storici clienti. Sarebbe stato il ritorno della vera auto del popolo.
di A.F.
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